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02 agosto 2024

01 agosto 2024

01 agosto 2024

30 julho 2024

Edoardo Boncinelli - "Il male. Storia naturale e sociale della sofferenza"

"Un posto dove si produce poco ma si consuma moltissimo. Un posto dove i cittadini che non lavorano hanno superato ampiamente il numero di cittadini che lavorano, dove larga parte della popolazione ha accesso a consumi opulenti e dove allo stesso tempo la produttività è ferma da vent’anni. Una società signorile di massa che si regge anche e soprattutto sulla ricchezza accumulata dalle generazioni passate, dove la maggioranza dei cittadini non ha la minima intenzione di risvegliarsi dal sogno grazie alla lentezza del nostro declino.
L’uomo chiama collettivamente Male un certo numero di cose diverse: il dolore, la malattia, l’infermità, la consapevolezza della morte, il senso di inadeguatezza, la paura, l’ansia, la noia, il desiderio inappagato, la perdita, il sentimento dell’ingiustizia, la percezione della cattiveria e dell’invidia. In ogni caso si tratta della constatazione di una certa differenza fra ciò che è e ciò che ci aspetteremmo che fosse. Che poi sarebbe il Bene… In natura male e bene non hanno alcuna ragion d’essere. Nello stato di natura il male non esiste, né, per la verità, il bene. Entrambi scaturiscono dai nostri giudizi di valore, che non si confanno assolutamente al mondo naturale.
Nessun animale si sognerebbe mai di biasimare o di lodare le proprie o le altrui azioni, a motivo, non fosse altro, della sua ben limitata libertà di scelta.
Se la sensazione di dolore si impone e si sovrappone a uno stato di non sofferenza, viene da chiedersi di che cosa è pieno – se è pieno – questo stato, diciamo così «normale».
Diverse volte infatti non sappiamo dire se una cosa che ci è capitata ci ha fatto piacere o dispiacere e questa può anche essere la base dell’ambivalenza, quel fenomeno psicologico che ci fa volere e non volere allo stesso tempo una cosa e non sappiamo se la vediamo con favore o con repulsione. Anche in questo caso il valore della carica motivazionale è superiore all’importanza della valutazione.
la vastità del nostro mondo interiore, creato e mantenuto da una grande capacità della nostra memoria che ci permette di confrontare e conglomerare tra di loro eventi diversi, accaduti in tempi diversi e su diversi piani di realtà: eventi reali, raccontati, letti, visti sui media, immaginati, progettati e via discorrendo.
Nessuno si è mai dannato l’anima per spiegare la gioia, come se questa ci spettasse di diritto. O rappresentasse lo stato di partenza. È del dolore che vogliamo trovare la ragione.
È opportuno d’altra parte notare che l’idea stessa che esista una causa, o meglio una causa unica, di un evento, deriva dall’osservazione dell’agire di un essere animato. Nel mondo reale nessun fenomeno ha mai una causa unica. Esistono sempre un certo numero di condizioni predisponenti la cui combinazione porta all’evento in questione.
Nel mondo degli atomi non ci sono cause determinanti; vi regna piuttosto l’aleatorietà e l’indeterminazione, anche se nel quadro di una sostanziale regolarità. Solo un corpo di una certa dimensione può produrre un effetto mirato e prevedibile. Solo un animale può rendersene conto. Solo un uomo può mettere in relazione il concepimento di un’azione con l’effetto della stessa, pensata come causa.
La nostra necessità di identificare sempre una causa, unica e facilmente individuabile, di ogni evento, esclude quasi automaticamente l’accettazione del fatto che qualcosa possa accadere per caso. L’idea di caso, e di casualità, è una delle meno gradite per l’animo umano e delle più difficili da cogliere anche per la nostra mente. È proprio per il ruolo predominante che vi gioca il caso, per esempio, che molti hanno una grande difficoltà ad accettare la teoria dell’evoluzione biologica. È

bene chiarire che dire che una cosa avviene per caso non significa sostenere che non abbia una causa, ma semmai che ne abbia troppe.
Costituzionalmente l’uomo è un grande costruttore di significati oltre che di nessi causali e non perde occasione per attribuire un significato a ogni evento.
Su che base possiamo dire «questo non è giusto» o «questo è peggio di quello che sarebbe giusto in un mondo privo di male» oppure ancora «questo è capitato ma non doveva o non avrebbe dovuto capitare»? Con che cosa lo possiamo confrontare? La vita di ciascuno di noi è una e non si ripete. Nessuno ci ha mai garantito che le cose non sarebbero state così, anche se almeno a parole la famiglia e la società tendono a darci un quadro del genere.
Il punto centrale del problema è che nessuno può dirsi perfettamente e assolutamente sano, nemmeno in un particolare momento della sua vita. È un po’ l’analogo della sfida faustiana alla ricerca dell’attimo al quale poter dire: «Fermati, sei bello!». Qualche processo patologico è sempre in atto, in ciascuno di noi, in ogni momento.
Esistono insomma infinite maniere di essere malato, ma una sola di essere sano, e la probabilità non gioca a suo favore.
Ciò che è vivo non può mai stare in quiete.
Ci troviamo a vivere in uno spazio ristrettissimo in circostanze che più che fortunate potremmo definire miracolose. Abitiamo su un pianeta dalla struttura e dal clima particolarmente stabilizzati, che ruota intorno a una delle tante stelle del firmamento, non particolarmente giovane e «focosa».
l’unica cosa sensata che possiamo fare è meravigliarci tutti i giorni che sia spuntato ancora un altro giorno. Ma questo non è nella nostra natura e ci lamentiamo al contrario di ogni piccola turbativa dell’ordine costituito che ci si pari davanti.
Ciò è da attribuire al fatto – comprensibile ma non ragionevole – che ormai ci siamo abituati a quello che abbiamo, al punto che ci sembra «dovuto», e a quello – più che comprensibile e in fondo ragionevole – che molte di queste turbative generano dolore e morte, circostanze che affliggono un cuore.
«libertà e giustizia». Se è vero che ogni uomo aspira a entrambi questi ideali sociali, è anche vero che essi sono in larga misura incompatibili. O almeno a me così pare. Perché ci sia un certo livello di quella che normalmente chiamiamo giustizia (sociale) occorre sollevare le sorte di alcuni – forse dei più – e abbassare il livello di fruizione dei beni sociali da parte di altri. E questo non è quello che normalmente si intende per libertà. Senza contare che si dovrebbe specificare chi lo dovrebbe fare e sulla base di quali criteri.
c’è chi privilegia l’obiettivo della giustizia e chi quello della libertà. Non sono raggiungibili entrambi allo stesso tempo. Forse i problemi (sociali) ci parrebbero meno disperati e senza soluzione se avanzassimo pretese più realistiche. Richiedendo per esempio di contemperare un buon livello di giustizia con un buon grado di libertà,
Il male nelle cose deriva dalla posizione unica e unicamente scomoda in cui si trova la vita in generale e la vita umana in particolare. È la vita in sostanza lo «scandalo» dell’universo, e ancor più la vita della civiltà.
Se prendiamo in considerazione una qualsiasi dote materiale o morale che sia distribuita con continuità nelle popolazioni – la bellezza, la prestanza fisica, la tenacia, l’agilità, la forza, l’intelligenza, la generosità e via discorrendo – vediamo che la natura predilige e premia i valori medi, come dire l’aurea mediocritas, mentre noi siamo usi privilegiare i valori estremi, in genere quelli più alti. Per ognuna di queste doti ci saranno per natura relativamente pochi individui che ne mancano e pochi che la possiedono in grado eccelso, mentre la stragrande maggioranza degli uomini staranno nel mezzo del mucchio; la possiederanno cioè in misura accettabile ma non eccelsa: ce ne saranno tanti di media intelligenza, di media bellezza, di media tenacia e via così […] è abbastanza ovvio che una situazione del genere è quella più adatta ad affrontare qualsiasi tipo di novità: una popolazione ricca di individui medi si mantiene meglio e ha più probabilità di assorbire tanto gli urti ambientali improvvisi quanto i cambiamenti striscianti che si manifestano solo a lungo andare.
Noi però non ragioniamo in questi termini. A noi piacciono i belli, cioè quelli molto più belli della media; gli intelligenti, cioè quelli molto più intelligenti della media; i forti, cioè quelli molto più forti della media. In questo modo ci condanniamo a una continua delusione, perché quelli che ci piacciono di più saranno sempre una minoranza.
Ma perché ci piacciono tanto i valori estremi, e in genere estremi da una parte sola, per esempio i più belli, i più intelligenti, i più forti e agili o i meno egoisti e prepotenti?
Vedo essenzialmente due tipi di spiegazione, una di natura biologica e una di natura culturale. Quella biologica è in qualche modo connessa con le scelte sessuali.
Nessuno è infatti mai completamente buono, o quasi, perché noi definiamo buono un comportamento praticamente irrealizzabile, così che quello di bontà è in sostanza un concetto limite.
Il possesso di una dote al massimo grado richiede in genere un’organizzazione maggiore e quindi un maggior ordine.
Alla vita in generale e a noi in particolare piace l’ordine, alla natura che ci circonda il disordine. La storia è il risultato della successione dei compromessi raggiunti nel tempo fra tali esigenze fra loro contrastanti.

Tanto le scienze naturali quanto quelle sociali e giuridiche non possono operare che su grandi numeri e facendo il più possibile astrazione dai casi singoli, mentre ciascuno di noi giudica tutto quello che gli capita in prima persona e riferendolo a se stesso. Le sue non sono mai prove ripetute, perché gli è toccata una vita sola-
il male compiuto nel mondo nasce principalmente se non esclusivamente da qui, da considerazioni di natura valutativa e comparativa.
Dobbiamo apprendere come è fatto il mondo, come le diverse realtà che lo popolano rispondono alle nostre sollecitazioni e come ci si comporta nelle varie circostanze, consuete o eccezionali. Questo apprendimento è fondamentale e lascia una traccia indelebile nella nostra mente e nel nostro corpo, tanto per l’aspetto cognitivo che per quello comportamentale.
l’azione è effettivamente finalizzata a temperare certe ingiustizie, ma ne introduce anche altre, anche se magari di minore entità. Sembra un po’ che le cose procedano come prescrive il secondo principio della termodinamica: nel funzionamento di qualsiasi macchina, il calore, cioè la forma più disordinata di energia che si ha a disposizione, non può essere tutto trasformato in lavoro utile, ma una parte deve per forza rimanere sotto forma di calore, […] lo sforzo per limitare e combattere l’ingiustizia tende sempre a introdurre un qualche altro piccolo o grande elemento di ingiustizia.


Abbiamo già visto che le società che hanno tentato di appiattire le differenze, almeno potenziali, fra gli individui e che non hanno così autorizzato la coltivazione di troppi «sogni» non sono durate a lungo. È interessante notare come di questa serie di questioni si sia già occupato nel Settecento Bernard Mandeville nella sua irriverente operetta La favola delle api. La sua conclusione è che una società nella quale i cittadini fossero senza desideri, aspirazioni, invidie e vera e propria cupidigia finirebbe per fermarsi, ristagnare e inaridire.
Non sono le differenze, in sostanza, che sembrano scatenare i conflitti, ma è l’aggressività che individua differenze e divergenze di ogni sorta appena può.
Superato un certo livello di allarme e di abbandono di ogni speranza, l’uomo tende a rilassare la propria tensione morale, ad abbassare per così dire la guardia e a comportarsi secondo la linea di minimo sforzo: se non c’è futuro, che senso ha comportarsi in modo da migliorarlo?"

30 julho 2024



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